Il Pelmo dalla cengia

Davanti al Caregon del Padreterno: Sulle cenge del Penna, 2196 m

28/11/2016

È il giorno dopo l’escursione insieme a Michele sulla Cengia dei Contrabbandieri, e mentre il sole sorge pigramente salgo in auto verso Zoppè di Cadore. Sopra il paesino svetta immenso il Pelmo, a mio parere il monte più maestoso di tutte le Dolomiti, definito appropriatamente il Caregon del Padreterno. Un trono di roccia dalla mole stupefacente, accentuata dal suo isolamento dai monti circostanti: se esiste una divinità, non può risiedere che qui. Il modesto e pianeggiante Monte Penna giace prostrato di fronte ad esso, ulteriormente sminuito da tanta imponenza; se il Pelmo è il trono, il Penna si può definire il poggiapiedi, per estendere il paragone. Eppure oggi la mia meta è proprio lui: questo monte a prima vista così poco interessante ha da offrire un esteso sistema di cengioni erbosi, regno di camosci, che si sviluppa lungo i versanti ovest e sud facendo da spettacolare balcone panoramico su tutti i principali gruppi montuosi della zona.

Atmosfere autunnali lungo la mulattiera

Lascio l’auto al Col del Pian, poco sopra Zoppè, e mi incammino lungo la comoda strada militare che da lì conduce verso Passo Rutorto e il Rifugio Venezia aggirando a sud e poi a ovest il Penna. Fa piuttosto freddo, e le croste di ghiaccio e l’erba brinata lungo il sentiero mi impensieriscono un po’: la cengia non dovrebbe essere particolarmente difficile, ma sarebbe sicuramente molto più delicata del previsto se le loppe fossero ghiacciate o innevate.

Il sentiero incrocia quello proveniente da Zoppè, fa una svolta e all’improvviso il bosco si dirada e compare davanti a me il Pelmo, massiccio castello ornato di neve e nuvole. Continuo brevemente per la mulattiera, che ora corre alla base delle pareti già in vista della cengia che sto per andare a percorrere, e raggiungo un ponticello di legno poco prima di Passo Rutorto, che segnala il punto dove abbandonare il sentiero per alzarsi sulla destra in direzione delle Crode de Pena e delle cenge.

Antelao e Sorapis, in mezzo Forcella Grande e la Torre dei Sabbioni

Si passa per terreni di pascolo, e realizzo subito che la traccia descritta nelle relazioni è stata malauguratamente cancellata dagli zoccoli delle vacche. Non riuscendo a trovare segnavia, provo a vagare un po’ a caso in prossimità delle pareti e per i pascoli soprastanti, nella speranza di imbattermi nella selletta mugosa descritta in letteratura come punto d’attacco. Ne approfitto per fare qualche foto: dai vasti prati gelati sopra Rutorto la vista spazia dall’Antelao al Civetta passando per il Sorapis, mentre il Pelmo incombe formidabile, vicino come non l’ho mai visto, le sue famose cenge evidenziate dalla scarsa neve. Dopo qualche ricerca infruttuosa trovo quasi per caso il segno che sto cercando: a 1870 m di quota, alla base della parete ovest, ecco la sella e il taglio di mughi da cui parte la cengia.

Sulla cengia ovest

Inizio così la lunga traversata per banche erbose, ripide abbastanza da tener desta l’attenzione ma non troppo difficili o esposte, almeno in condizioni ottimali. Nonostante la stagione avanzata, l’esposizione favorevole me le fa trovare essenzialmente sgombre da neve e ghiaccio, e non sento il bisogno di calzare i ramponcini. Per tutta la lunghezza della cengia non ci sono segnavia, solo la traccia dei camosci, ma il percorso è logico e grossomodo obbligato, e la relazione è più che sufficiente per raccapezzarsi.

Passo oltre una zona in cui la parete ricopre la cengia con pronunciati tetti rocciosi, assai frequentati dai camosci a giudicare dall’abbondanza di escrementi che ricoprono il pavimento. Di bivaccare qui non se ne parla, salvo situazioni seriamente disperate e un discreto pelo sullo stomaco. Questa prima parte della cengia offre anche una potenziale via di fuga, se pure di utilità relativa, sotto forma di un pendio di erbe e ghiaie piuttosto ripido ma praticabile che permette di ricongiungersi alla mulattiera più in basso se così si desidera.

Verso lo spigolo

Poco oltre un evidente canale erboso incide la fascia rocciosa sulla sinistra: abbandono la cengia che continua in piano per salire faticosamente a quella immediatamente superiore, nuovamente ricoperta da tetti. Da qui continuo a lungo per la cengia moderatamente ascendente, percorrendo tutto il versante sud-ovest tra pareti strapiombanti e boschetti sospesi, oltre un canale ghiaioso fino alla panoramica selletta alberata in corrispondenza dello spigolo con il versante sud. Pelmo e Civetta scompaiono dietro l’angolo, e all’orizzonte si aggiunge il frastagliato insieme di cime del Bosconero, mia meta abituale di esplorazione.

La vetta sopra alla seconda parte della cengia

La cengia si fa un po’ più larga e meno alberata. Davanti a me, poche decine di metri più in alto, scorgo la cima del Penna. Un paio di canalini di erba e roccette permettono di raggiungere senza difficoltà la cresta e da lì la vetta erbosa e tondeggiante; scelgo il primo, meno ripido, e mi concedo questa breve e remunerativa deviazione. Tutti i monti visti lungo il percorso sono riuniti davanti ai miei occhi in un emozionante panorama a 360°, e si vede anche buona parte dell’ombroso catino glaciale in cui va a morire la cengia propriamente detta. A questo punto si potrebbe naturalmente scegliere di ritornare al passo di Rutorto per la facile via normale – scelta probabilmente saggia in caso di ghiaccio o neve nella parte terminale esposta a nord – ma non noto condizioni problematiche e decido di completare il giro come da programma.

Sotto le Crepe de la Viza Vecia

Torno sui miei passi fino alla cengia e la seguo fino allo spigolo successivo, dove si esaurisce in una macchia di mughi e un taglio di rami permette l’accesso all’anfiteatro ghiaioso visto dalla vetta. L’ambiente cambia totalmente: l’esposizione si attenua man mano fino a scomparire, e l’erba secca è sostituita da chiazze di neve e ghiaino ghiacciato mentre procedo sotto le tetre muraglie delle Crepe de la Viza Vecia, dietro le quali il Pelmo si mostra da una prospettiva piuttosto insolita.

Dopo una lunga marcia discendente lungo il bordo del catino e uno scivolone sul ghiaccio risoltosi in un piumino rovinato e un gomito ammaccato arrivo al margine inferiore del ghiaione, dove alcuni ometti segnano l’intersezione con una traccia sulla destra che tra massi e mughi porta fino al bosco dove corre il sentiero 493 che mi ricondurrà a valle. Qui la traccia si perde tra l’erba secca, ma il sentiero corre perpendicolare alla mia direzione e non c’è pericolo di mancarlo: continuo dritto verso est affidandomi al naso e alla bussola e lo raggiungo, seguendolo poi fino alla mulattiera e al punto di partenza senza particolari sorprese.

 

Verso gli Spiz di Mezzodì
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